I supereroi non esistono.
Siamo portati davanti a grandi performance a pensare che colui o colei che l’ha messa in atto sia “un alieno”, “un mostro”, un “supereroe”.
Ci sbagliamo.
Dietro ad ogni Record del Mondo, ori olimpici, medaglie mondiali c’è sempre e soltanto un essere umano. E per quanto possa sminuire il nostro di valore, elevare un atleta a qualcosa di non umano, non darà nulla in più a noi, ma toglierà molto a lui.
Gli toglierà “umanità”. Quell’umanità di cui è intriso ogni campione quando si arrabbia per quel centesimo mancato. L’umanità che mostra quando si nasconde da giornalisti e telecamere per poter correre a chiamare casa e dire “l’ho fatto davvero” oppure a piangere in pace e solitudine nell’angolo più nascosto dello spogliatoio.
I supereroi nello sport non esistono.
Non ci sono poteri piovuti da un altro pianeta o che si sono manifestati improvvisamente con il morso di un insetto. Ci sono anni, decenni di dolore, sacrifici, rinunce, fallimenti, pianti, urla, cuori infranti ed occasioni mancate.
I campioni invece esistono e si assomigliano un po’ tutti. Sono quelli che si riconoscono dalla loro essenza, dalla loro caratteristica comune: quello di essere “umani”. Quelli che dopo mille cadute si sono rialzati sperando che l’ultima occasione potesse essere quella decisiva. Sono quelli ammaccati dagli infortuni che hanno creduto nel riscatto.
Essere così umani rende lo sport immortale. Per ogni campione che chiude la sua carriera ci sarà un bambino che vorrà essere esattamente come lui. E quel bambino sa che può farlo proprio perché non occorrono superpoteri.